giovedì 6 settembre 2007

Il San Francesco recensito da Papa Montini.




Vi presentiamo una recensione del libro di Chesterton da parte di don Giovanni Battista Montini, divenuto poi Papa Paolo VI.
E' la biografia di San Francesco d'Assisi, scritta nel 1923, un anno dopo la conversione di Gilbert.
Paolo VI lesse non la versione originale ma la traduzione francese dell’opera di Chesterton.
La recensione è apparsa sulla rivista Studium, vol. 22 (1926), n. 10 (ottobre), pp. 543-546 e la si può trovare nel volume Scritti Fucini (1925-1933), curato di Massimo Marcocchi e pubblicato nel 2005 dalle Edizioni Studium di Roma e dall’Istituto Paolo VI di Brescia.
La segnalazione è del preziosissimo chestertoniano iropartenopeo Angelo Bottone (http://bottone.blogspot.com) che ringrazio ancora una volta pubblicamente.
Angelo Bottone è la persona che ci ha reso nota la recensione di Papa Montini all'Ortodossia di Chesterton e che trovate su questo blog.
Vorremmo sempre questa partecipazione al blog.

Saint François d’Assisi di Gilbert K. Chesterton, Paris, Plon, traduzione dall’inglese di Isabelle Riviére.

Chesterton è un nome che sta per divenire celebre anche fra noi: fra poco sarà uno degli scrittori che caratterizzano il gusto e il pensiero del nostro ambiente. Il suo nome è fra i più noti della recente letteratura inglese; inglese è la maniera assolutamente semplice di trattare gli argomenti che sembrerebbero capaci a (….) [è caduta una riga nell’originale. Nota del curatore] tedeschi di stancare le più consumate competenze: inglese l’umorismo che condisce d’un fine sapore dialettico e talvolta polemico la narrazione. Ma noto è soprattutto il Chesterton perché tra i convertiti al cattolicismo la sua evoluzione spirituale è singolarissima e tipica insieme; nulla di più moderno della sua educazione spirituale, agnostica e artistica, filiazione dell’epoca positivistica che aveva spinto il suo disinteresse per i problemi massimi dello spiriti fino a farne un vezzo d’aristocratica eleganza di pensiero, e che forse per questo stesso atteggiamento ricercato aveva lasciato rivedere in sé l’avidità della forma estetica dell’arte, della bellezza, e s’era rifugiata, uscendo dal tempio del vero, ai piedi dei simulacri del bello; Chesterton si dice greco ed arcadico. Ma insieme nulla di più antico, di più tradizionale del contenuto delle sue riconquiste religiose. In un libro che sarà presto dato alle stampe in lingua italiana, Orthodoxy, Chesterton narra la sua conversione, avvenuta nel 1900 circa, quando aveva venticinqu’anni: libro il cui fascino è tutto costituito da un unico motivo, umoristico ed ironico all’apparenza, apologetico e drammatico in realtà, la scoperta, cioè, dell’antica sapienza come espressione ultima dei desideri nuovi. Egli si paragona ad uno che navigando perde la bussola e crede, sbarcando, d’aver scoperto un continente nuovo e vi pianta la bandiera come terra di conquista ed esplorazione; è sbarcato là donde era partito!
"Ho cercato, come tanti piccoli ragazzi solenni, di precedere la mia epoca ma ho trovato che ero di diciannove secoli indietro … Ho cercato un’eresia di mia invenzione ed ho scoperto l’ortodossia. Ho cercato nei clubs anarchici e nei templi di Babilonia ciò che avrei potuto trovare nella parrocchia più vicina."
Con questo criterio di scoprire il nuovo nel vecchio, la fecondità perenne della vita nell’immobilità della fede, l’Autore si pone il caso concreto della modernità del santo più paradossale, più assurdo che un inglese moderno possa immaginare.
Infatti dalle prime pagine del libro Chesterton chiarisce il proprio punto di vista e il proprio scopo. Egli non narra, spiega: non documenta, riflette: non analizza, riassume. In che modo? Gustosissima la risposta, che serve d’introduzione all’opera; parlare d’un santo come d’un uomo, cioè senza parlare di Dio? no: sarebbe come parlare d’un esploratore polare tacendo del polo. Parlare di lui non vedendo chiaro che là dov’è oscuro, cioè spiegarne la vita del santo mediante i misteri soprannaturali? ci vorrebbe un santo allora per scrivere la vita d’un santo. No. Egli tenterà di mettersi nei panni d’un curioso benevolo, d’un profano "moderno ed ordinario", e, così, con occhi, esterrefatti ma sinceri, guardare e capire. Chesterton, cioè cerca di realizzare al massimo grado la congiunzione del lettore moderno con l’autentico S. Francesco, di stabilire quindi, all’infuori dei modi convenzionali, sia storici che artistici, sia pietistici che avversi, un contatto tra il pubblico inglese e il personaggio che sembra più estraneo alle tendenze, ai pensieri, ai gusti di quello. Il contrasto sarà contatto: sarà maniera originale per rompere lame contro i pseudo-dogmi del libero pensiero avvilito nella schiavitù dei pregiudizi del secolo: sarà arte per ravvivare il fantasma storico in un’avvincente figura immortale.
Louis Gillet commenta così questa tattica dell’autore: "Egli non racconta: sopprime una folla d’aneddoti; la sua preoccupazione è di spiegare le cose e di render sensibile un certo ordine di fatti morali. Lo si sente sempre in presenza d’uno di quei gravi pubblici inglesi, d’uno di quei gruppi d’operai, d’impiegati, di londinesi purosangue che si radunano attenti, il sabato, all’angolo di una via, attorno d’un predicatore all’aria libera, come di formano da noi attorno ad una canzone. Occorre per farvi intender da loro un linguaggio speciale, ricondurre ciò che ignorano a delle cose ch’essi conoscono, parlar loro del comune di Assisi come se si trattasse di Clapham o di Putney. Bisogna prendere un tono ch’essi comprendono, talvolta commosso, sempre chiarissimo, uno svolgimento concreto, ardito e qualchevolta burlesco. Tutto è vinto, se l’oratore ha potuto provocare nell’uditorio questa smorfia di allegria che apre e rischiara i visi oscuri, come un barlume d’intelligenza. Di là lo stile particolare di Chesterton, le sue digressioni … la sua mescolanza di toni, i suoi ghiribizzi, i suoi scatti, i violenti partiti presi, le semplificazioni estreme del soggetto, i salti e le giravolte del racconto, e quella eloquenza o sorpresa che va dalla poesia e dal lirismo alle trivialità del popolino>.
Non si potrebbe esprimere meglio la stilistica di questo libro. Ma non è per essa che il libro è degno di segnalazione; la letteratura francescana moderna se ha un difetto, un noioso difetto, è proprio per le sue sdolcinate affettazioni stilistiche, e, con un isterismo personalistico e imperdonabilmente convenzionale, cerca indarno la maestria dell’arte e i carismi della mistica. Il libro è notevole per quello che dice, per quello che, pur non dicendo, fa pensare e scoprire. Raramente la potenza espressiva dell’autore fonde arte e pensiero in passi sublimi, ma sono sublimi davvero (alla fine dei capitoli II-VIII-IX e X). Di solito invece il pensiero prevale, e si può dire che tutte le risorse della volubile espressione son messe in gioco per far risaltare quello.
Perciò si può riassumere in alcuni concetti fondamentali il modo con cui Chesterton considera realisticamente S. Francesco.
S. Francesco è un poeta, non solo nel senso che sente e canta la poesia, ma soprattutto che vive poeticamente (pp. 77, 94, 139, 142, 159, 232). La poesia è espressione immediata dell’intuizione del reale, a differenza della prosa che è discorsiva e analitica. Vivere poeticamente significa avere per molla motrice non tanto la riflessione quanto la rapida spinta dell’amore. S. Francesco è quindi un amante, nel vero senso, nel più alto senso della parola (p. 11).
Donde la temeraria immediatezza nel dare, nel fare, nel fidarsi, nel mettersi nelle condizioni più assurde: donde quella sua celerità impetuosa che sembra non avergli mai concesso di separare un pensiero dalla sua pronta esecuzione; quella coerenza completa fino alla riproduzione letterale ed integrale del principio con cui sostanziava ogni suo gesto, ogni suo atto (pp. 55, 121, 172, 186, 194).
Donde ancora la sfida a tutte le compassate e opprimenti leggi del senso comune, e la creazione continua d’un’originalità individualissima, che sembra ed è follia; che affronta tutte le stravaganze con la semplicità di chi non ambisce d’esser veduto e di chi tollera con letizia invincibile d’esser avvilito dal pubblico disprezzo in un annientamento tale da oltrepassare i limiti della distruzione morale d’uomo e convertirsi piano piano in altrettanta stupita ed entusiastica ammirazione (pp. 88, 100, 103, 104, 117, 156, 182).
Perciò Francesco è un novatore; profittando della completa vittoria sulla natura, o meglio sul naturalismo che sconsacra e quindi deprava la natura, egli riannoda, dopo secoli di lotta, di penitenze, di ascetiche e talvolta manichee macerazioni, vincoli di pace con la creazione; ad essa ormai è pervenuta, attraverso la coscienza dell’uomo fatto cristiano, la buona novella della redenzione che solleva, non nemica, ma sorella, dell’uomo: dell’uomo che ha rinunciato a trovarsi alcun fine degno di sé, ma che ormai non potendola più vedere ed amare se non in Dio e per Dio, la trova divinamente bella, la possiede senz’esserne posseduto, la gode senz’esserne contaminato (pp. 29, 78, 125, 133).
V’è chi ha criticato quest’ultima affermazione, che cioè l’avvento francescano segni la fine d’una secolare quaresima, ed inauguri un periodo di onesto godimento: ché tutta l’ascetica francescana è imperniata sulla penitenza, e le correnti storiche del francescanesimo si nutriranno e si distingueranno appunto per il minore o maggiore spirito di rinuncia e di sacrificio che le muove.
Con questo non si può però dire che all’Autore sfugga il carattere penitenziale di S. Francesco. Egli vi consacra un altro concetto fondamentale del suo lavoro. S. Francesco è colui che conduce lo spirito cristiano dall’adorazione di Cristo all’imitazione di Cristo; che pratica la povertà come arte della liberazione, che vi insiste fin quasi a sospendere la sua dolcezza inseparabile; che cerca con avidità di essere espulso dal mondo in cui vive, che tenta indarno d’incontrare il martirio; che mette tanta audacia nell’abbracciare il dolore da trasformare l’ascetica in mistica, la penitenza in letizia, la pena in diletto; che finalmente raggiunge nell’estasi della passione la perfetta somiglianza con Gesù crocifisso (pp. 82, 150, 152, 154, 175, 193, 199).
Da queste idee sommarie scaturiscono altre vigorose e profonde concezioni sulla personalità interiore del Santo. Capitale quella della dipendenza, cioè della sospensione di tutte le cose in Dio, che dà ragione dell’onnipresenza divina nel mondo francescano, e della bontà originale delle cose; dell’umiltà correlativa alla grandezza e alla bassezza di tutto ciò ch’è creato; della cieca fiducia che i figli devono avere nella paterna provvidenza divina; del misticismo infantile ed ottimistico che della fiducia in questa provvidenza si imbeve e si inebbria (pp. 106, 113, 128, 190). Bellissima quell’altra concezione della trasformazione dell’uomo giusto "per la quale colui per cui tutto ciò che esiste illustra e illumina Dio, diviene colui per cui Dio illustra e illumina tutto ciò che esiste> (p. 109). Ma di questi pensieri tutto il libro è fiorito, e benché piccolo di mole sembra tanto più prezioso dei grossi volumi che i servitori dell’erudizioni e i manipolatori della tradizione francescana suntuosamente prodigano per incantare il pubblico.
Tale ristrettezza di trattazione scusa le lacune del libro e prima di tutte quella narrazione ordinata della vita del Santo, come sopra dicemmo; ciò non toglie, a nostro avviso, che a torto, per esempio si rimproveri dal Gillet la mancata visione del movimento sociale che fa capo a S. Francesco (Revue des deux Mondes – I novembre 1925). Chesterton illustra il senso sociale che S. Francesco ebbe della religione: la sua pratica reale del concetto d’uguaglianza tra gli uomini; il suo spontaneo rispetto, incapace di rivoluzione e svalutatore d’ogni militarismo fosse pure quello crociato, ad ogni sorta di uomini, il carattere economico e giuridico del suo nuovo ordine, donde procederà la riforma ecclesiastica e sociale del medioevo (pp. 38, 57, 142, 145, 241).
Ma tutto questo ci conduce a fare un’osservazione su quest’opera, che pur non priva di difetti, ci sembra molto pregevole. Se cioè essa veramente come l’Autore la definisce, sia un’introduzione alla vita di S. Francesco o piuttosto una conclusione esplicativa e sintetica insieme. Essa infatti per il suo andamento intellettualistico, si serve di troppe allusioni ai fatti e ai personaggi della biografia del Santo per essere capita da chi già non conosca, per studio di buone fonti, la biografia stessa. Essa insomma presuppone una conoscenza della vita di S. Francesco per essere gustata e per gustare tutto il materiale prima esaminato.
È infatti, secondo il nostro modesto parere, una di quelle di prefazioni che si debbono leggere dopo la lettura del libro.
Per questo ci sembra che a quanti avvertono sintomi di sazietà per tutte le cose e le fiere che ci ha procurato il centenario francescano, questo libro sia consigliabile per far loro amare ancora il povero S. Francesco.

g. b. m.

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