venerdì 26 gennaio 2007

Da RomaSette.it, Andrea Monda su Chesterton.


La visione cattolica del mondo al centro del saggio scritto dall'inglese Gilbert Keith Chesterton nel 1908

di Andrea Monda

Nel 1905 il giovane scrittore inglese Gilbert Keith Chesterton pubblicò un saggio intitolato semplicemente “Eretici”. Con questo termine intendeva polemizzare con quelle persone della cultura del suo tempo che «avevano l’ardire di non essere d’accordo con lui», da Bernard Shaw a H.G.Welles e a Rudyard Kipling. Il saggio ebbe un certo clamore e qualcuno chiese al polemista di specificare la sua “ortodossia”, cioè la dottrina in base alla quale aveva bollato quelle personalità come eretici. Fu così che tre anni dopo, nel 1908, fu pubblicato “Ortodossia”, il capolavoro dell’opera saggistica di Chesterton, genio multiforme della cultura novecentesca, oggi purtroppo caduto in un tenebroso quanto immeritato oblio.

Nel 1908 lo scrittore non si è ancora convertito al cattolicesimo (l’ingresso ufficiale nella Chiesa avverrà solo nel 1922), ma una volta letto questo libro, ora saggiamente e finalmente ripubblicato dalla Morcelliana, dubbi non ce ne possono essere: l’ortodossia chestertoniana è quella cattolica, né più né meno; la polemica è diventata apologia, apologia di un credo non ancora confessato pubblicamente ma vissuto intimamente.

Nelle prime pagine lo scrittore presenta al lettore l’immagine dell’esploratore inglese che, fatto il giro del mondo, finisce poi per scoprire…l’Inghilterra (dalla stessa immagine, sette anni dopo, scaturì il capolavoro dell’opera narrativa di Chesterton, “Manalive”, in italiano, “Le avventure di un uomo vivo”). È una metafora del cammino spirituale dello scrittore che nel momento in cui aveva pensato di aver scoperto una nuova visione del mondo si accorse che era vecchia di venti secoli, perfettamente coincidente con la visione cristiana del reale. E di “visione” della “realtà” si tratta: su questi due concetti si può tranquillamente tracciare un profilo della poetica chestertoniana. Lo ha capito l’antropologo rumeno Mircea Eliade che, pochi giorni dopo la morte dello scrittore inglese, avvenuta il 14 giugno 1936, lo ricordò con queste parole: «Innocent Smith, lo straordinario personaggio di “Manalive” (sicuramente il suo romanzo migliore), ci fa vedere benissimo che abbiamo perduto il senso del meraviglioso proprio perché lo cerchiamo, invece di vedere che è in mezzo a noi. Cerchiamo il miracoloso e il “romantico”, come cerchiamo la felicità, l’amore perfetto e la saggezza, senza accorgerci che sono intorno a noi, in attesa che li vediamo».

In un mondo tutto razionalistico (nel senso però meramente matematico) si è persa la capacità di vedere; da qui la riscoperta della fantasia e della poesia che, dice Chesterton, difendono la sanità globale dell’uomo, del suo spirito ma anche della stessa ragione perché «le fate custodiscono la ragione», scrive nell’ “Autobiografia”. L’immaginazione è ciò che l’uomo moderno ha perso, danneggiandone anche la salute mentale. «Non è l'immaginazione che produce la pazzia; è la ragione» scrive in “Ortodossia”. «I giocatori di scacchi diventano pazzi, non i poeti; i matematici, i cassieri possono diventare pazzi, non gli artisti che creano».

Chesterton è senz’altro un critico della modernità e delle sue contraddizioni. Ma critica con lievità, umorismo, senza angoscia o moralismo, riuscendo così a prendere in contropiede il lettore con intelligenza, bonomia e acume. Ogni pagina di “Ortodossia” è ricca di paradossi, di riflessioni argute, quasi arzigogolate ma che, viste onestamente, rivelano l’intento candido e felice che muove lo scrittore-filosofo: condividere con il lettore la gioia che lo anima. Per dirla con la prima lettera di San Pietro, il voler «rendere ragione della speranza» che è un lui. Kafka ebbe a dire che «Chesterton è così felice che sembra abbia incontrato Dio». Non è un caso che l’ultima, toccante, pagina del saggio è dedicato all’allegria, la gioia, che è secondo Chesterton, «il gigantesco segreto del cristiano».

17 gennaio 2007

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